Quelle meraviglie MAI VISTE IN ITALIA

L' apertura del Museo di Arte Orientale a Torino, con mille e cinquecento opere divise in cinque sezioni, tra le quali quella dedicata alla scultura Gandhara, assume una particolare e felice importanza perché in Italia, per buona parte del Novecento, si è coltivata una mezza leggenda, creata da una cultura che non faceva che rivangare sempre lo stesso terreno, quello della civiltà classica. La parte condivisibile della leggenda era che i cosiddetti barbari avevano portato distruzioni immense al tempo delle invasioni, ma intorno a loro si erano andati creando gli stati nazionali. Questi, tuttavia, non sarebbero potuti sorgere come per incanto dalle ceneri dell' impero romano senza la riscoperta della cultura romano-greca - detto molto in centoni - che aveva permesso la fuoriuscita dal lungo tunnel del Medio Evo, sempre gratificato della qualifica di "buio", per risalire nell' aria fresca e ventilata delle leggiadre colline toscane e luoghi similari, particolarmente indicati per la creazione artistica. Bastava andare in giro per le città d' arte, a Pisa o a Lucca, e controllare con le date se quell' architettura in bianco e nero fosse venuta prima o dopo la moschea omayade di Damasco, o leggere La strada per l' Oxiana di Robert Byron, dove parla di straordinari monumenti selgiuchidi, nella Persia settentrionale, per capire che la rinascita dell' Europa non era dovuta a qualche sporadica lettura fatta su testi classici recuperati da quel fenomenale e intelligentissimo bugiardo di Poggio Bracciolini. Ma alla scienza e alla conoscenza di immigrati mediorientali - ebrei, siriani cristiani, copti, armeni, bizantini - in fuga dai loro paesi, che erano arrivati a Venezia, come a Genova o a Pisa o a Marsiglia, travasando il loro sapere molto prima delle crociate. Il famoso bugnato fiorentino era pratica comune presso i muratori di Bagdad nel settimo secolo dopo Cristo, e anche il cavaliere feudale francese, quello che Duby fa nascere in Francia nelle prima metà dell' undicesimo secolo, era già stato visto, completamente catafratto, mentre sconfiggeva i romani in Persia sette secoli prima. È stato solo negli ultimi decenni, e con grande sforzo, che ci siamo liberati di questa ossessione eurocentrica. Cominciando ad apprezzare quello che si è fatto al di là di quel breve spazio tra l' Atlantico e il Levante Mediterreneo, in paesi al centro di grandi culture, come la Battriana e la Sogdiana, e di cui sapevamo a malapena il nome. Fino ai primi anni Settanta, chi arrivava a Peshawar, leggendaria città pakistana abitata dai turbolenti Patani, come vengono chiamati gli afghani che sono passati dall' altra parte del Kyber Pass, aveva ancora la possibilità di fare acquisti imprevedibili. Si entrava nel suk, cercando del kilim, e dopo mezz' ora di convenevoli e innumerevoli tazze di tè il mercante si alzava con uno scatto proclamandosi tuo grande amico e dicendoti che avrebbe fatto la tua fortuna. E dopo avere gettato da una parte i kilim, apriva una botola sul pavimento, e ti trascinava in un buio scantinato. E frugando qua e là, tirava fuori da sotto gli stracci sporchi un busto di Buddha, scolpito secondo uno stupendo disegno gandhara. All' epoca ne sapevo poco di quest' arte che aveva avuto a Peshawar uno dei suoi centri più importanti. Quello che impressionava era il modo con cui gli artisti avevano trattato la superficie del marmo, rendendo la pelle come fosse una guaina trasparente e sottile che segnalava sotto di sé ogni minimo rigonfiamento e protuberanza, in modo da dare al corpo umano una struttura assolutamente anatomica. In certe opere, la resa del corpo era stata talmente raffinata e asciugata, che il Buddha sembrava un essere fatto di ossa e di nervi. Avevo già visto statue simili a Kabul, nel museo che oggi non esiste più. Ma a Peshawar questi pezzi si trovavano sul libero mercato e non costavano poi molto. Credo finiti tutti quanti a Zurigo, trasportati dai camion che una volta attraversavano tutto il Medio Oriente e poi di là passati ai musei americani. Il busto del mio Buddha aveva i capelli raccolti in cima alla nuca e dietro portava un' aureola che si era spezzata. E il labbro superiore era rivestito da lunghi e sottili peli che davano al principe indiano un aspetto nobilmente barbaro. Mentre un manto estremamente sottile e scolpito con tecnica da grande maestro scendeva in mille pieghe incollate al corpo come se fosse una stoffa bagnata. Era un' arte che sembrava seguire una difficilissima linea di confine. La conquista da parte di Alessandro Magno di una gran parte dell' Asia occidentale nei secoli successivi aveva portato l' ellenismo ad infiltrarsi fino a raggiungere grandi culture come quella della Battriana e della Sogdiana. Fino a quel momento il Buddha, colui che aveva liberato gli uomini dalla paura della morte e dal terrore degli dei, era stato raffigurato con simboli e segni, i più adatti a ricordare l' uomo che aveva rifiutato ogni possesso terreno. E' difficile dire se l' abbandono di un' arte aniconica e la scoperta della figura sia dovuta solo all' influenza dell' ellenismo o sia stata una scoperta anche autoctona. L' incontro tra le due correnti, la mediterranea e quella indiana, portò all' elaborazione di un nuovo linguaggio formale: i capelli ondulati, la veste che copriva tutte e due le spalle, i sandali e le foglie di acanto venivano dalla Grecia. Mentre di provenienza indiana erano le stoffe più raffinate e aderenti, la posizione a forma di loto e i lunghi lobi perforati che ricordavano la sua infanzia e la sua gioventù come principe e la crocchia in cima alla testa. Anche l' espressione nobilmente olimpica, che ricordava quella delle statue arcaiche del tempio di Zeus ad Olimpia, appariva come immersa in un' atmosfera orientale di atarassia e segnalava un' assenza: il Buddha non era là dove in quel momento lo vedevamo, ma altrove a inseguire i pensieri che andavano al nulla eterno. Il grande Giuseppe Tucci diceva la stessa cosa dei tibetani, quando i suoi compagni di viaggio si lamentavano della loro aria attonita. «Non sono stravolti dalla fatica e dalla mancanza d' ossigeno; sono solo da un' altra parte, una cosa che gli occidentali fanno fatica a capire». In Italia, dove abbondano i lavori dell' epoca romana, greca, etrusca, italica e poi medioevale, rinascimentale e via museando, c' è pochissimo dell' arte gandhara e in genere di opere che appartengono alle culture dell' Asia Centrale. Le ragioni di questa assenza sono in gran parte storiche. A partire da Marco Polo e da Olderico da Pordenone gli italiani sono stati tra i primi europei ad andare in Oriente e ad apprezzare l' artigianato e le arti locali. In tutta l' Europa non c' erano artigiani né architetti, né vetrai, né fabbri che potessero rivaleggiare con le maestranze di Gerusalemme, del Cairo o anche cinesi. E anche meno con quelle dell' Asia Centrale per le stoffe dipinte o stampate, per le lane preziose, per gli intarsi, le maioliche e per le tessiture. I veneziani, che andavano pazzi per tutta la mercanzia di lusso trafficata lungo la via della seta, arriveranno fino a giustificare la rapina per impadronirsi di tutte le meraviglie che arrivavano da molto lontano e avevano Bisanzio come punto di arrivo. Tutte merci che venivano definite genericamente "arabe", dove arabo sta al posto di mussulmano, mentre in realtà provenivano dalla Persia, dalla Battria e dalla Sogdiana, come a dire Bukhara e Samarcanda. Con il progredire della potenza turca, i traffici con l' Oriente erano andati diminuendo e così pure il flusso delle opere d' arte. Quando si aprì nei primi dell' Ottocento la grande stagione che portò alla fondazione dei musei, l' Italia era troppo povera, troppo divisa in staterelli e troppo impegnata a diventare una nazione per potere preoccuparsi di quello che mancava nelle collezioni delle città d' arte. Nessun italiano ha mai partecipato a quella straordinaria corsa la tesoro aperta all' inizio del Novecento nell' Asia centrale, quando Aurel Stein, Pelliot e Von Lecoq ed altri ancora, russi, giapponesi e americani, andavano a zonzo tra il deserto del Taklamakan, le Tien Shan, le montagne celesti e l' oasi di Dung Huang, portandosi via meravigliosi reperti della cultura della Via della Seta. Per ritrovare gli italiani in Asia Centrale bisognerà aspettare la spedizione sul Karakorum del duca degli Abruzzi e poi i viaggi di Dainelli, di Tucci e di Maraini.

STEFANO MALATESTA