PROGETTO DI LEGGE - N. 5634
Onorevoli Colleghi! - Durante i circa sessanta anni di
presenza coloniale italiana in Eritrea sono nati
approssimativamente 15 mila figli da unioni tra cittadini
italiani e donne eritree; non esistono statistiche precise al
riguardo, ma su tale cifra concordano diversi autori, fra cui,
ad esempio, il vice console italiano in Eritrea, Gino
Corbella, che nel 1959 stimava in 15.500 gli italo-eritrei.
In un primo tempo nulla vietava ai padri italiani di
riconoscere i figli naturali avuti da donne eritree, salvo la
disposizione del codice civile che vietava il riconoscimento
dei figli adulterini (disposizione rimasta in vigore in Italia
fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975). Era però
assai frequente che durante il soggiorno in colonia, uomini
italiani già sposati in Italia convivessero more uxorio
con donne locali; tali casi erano frequenti specialmente
tra i militari, a cui non era consentito portare in colonia la
moglie. Furono dunque numerosi i casi di padri italiani che si
trovarono nell'impossibilità di riconoscere i propri figli
avuti da donne eritree. Agli impedimenti giuridici che
ostacolavano il riconoscimento, si affiancava sovente una
mancanza di senso di responsabilità, alimentata sia da
pregiudizi razzisti (un figlio dalla pelle scura veniva
percepito come intimamente diverso da un figlio nato da una
donna bianca), sia da un malinteso senso di libertà associato
alla vita in colonia; era diffusa, in altri termini, la
convinzione che l'Africa fosse una terra selvaggia di
conquista, in cui non valevano le norme del vivere civile che
si seguivano in patria. Così, sembra che nel 1922 ci fossero
in Eritrea 165 figli di unioni miste riconosciuti e 141 non
riconosciuti dal padre. Proprio negli anni venti il governo
della colonia adottò la prassi di iscrivere nei registri di
stato civile i figli nati da unioni miste, anche se non
riconosciuti dal padre. Purtroppo, gli archivi del governo
italiano della colonia, conservati presso l'Archivio storico
diplomatico del Ministero degli affari esteri, sono
estremamente lacunosi e non permettono di ricostruire con
precisione la prassi seguita; però, da una lettera del
commissario speciale Teodorani, datata Asmara 19 gennaio 1920,
proprio sul caso di un militare italiano che aveva avuto in
colonia due figli adulterini, che come tali non potevano
essere iscritti nello stato civile, apprendiamo che:
"Per le ultime disposizioni, i meticci, nati dall'unione
naturale di un uomo bianco con una donna indigena, possono
essere iscritti su richiesta del Procuratore del Re come figli
naturali di padre ignoto e dando loro un cognome differente da
quello che viene loro comunemente attribuito".
Per sanare la situazione dei figli di ignoti di origine
italiana, intervenne, poi, la legge 6 luglio 1933, n. 999,
recante "Ordinamento organico per l'Eritrea e la Somalia", che
disponeva, all'articolo l8, che il nato in Eritrea e Somalia
da genitori ignoti, quando i caratteri somatici ed altri
indizi facevano ritenere che uno dei genitori fosse di razza
bianca, poteva, giunto al diciottesimo anno di età, assumere
la cittadinanza italiana a condizione che:
non fosse poligamo;
non fosse mai stato condannato per reati che
comportassero la perdita dei diritti pubblici;
avesse superato l'esame di promozione alla terza classe
elementare;
avesse posseduto una educazione perfettamente
italiana.
Conviene, infine, osservare che in questa prima fase del
colonialismo italiano, come una ricca documentazione
d'archivio prova inequivocabilmente, il governo della colonia
avvertiva una speciale responsabilità nei confronti dei figli
naturali degli italiani in colonia, anche - anzi, soprattutto
- se non riconosciuti dal padre. Infatti, su segnalazione dei
residenti o dei commissari di governo, sovente il governatore
disponeva il loro ricovero in istituti di assistenza ed
istruzione gestiti dai missionari, e la spesa relativa veniva
addossata al bilancio coloniale. Per evitare di gravare il
bilancio della colonia di quest'onere, il regio corpo truppe
coloniali cercava inoltre di rintracciare in Italia il
militare a cui la voce pubblica attribuiva la paternità e lo
sollecitava a pagare per il mantenimento del proprio figlio
naturale. In altri termini, nonostante la legislazione
italiana non permettesse la ricerca di paternità, di fatto
tale ricerca era effettuata, se non ai fini dell'iscrizione
allo stato civile, almeno per alleviare la disagiata
situazione economica di tali figli naturali. Si può dunque
concludere che nella prima fase del colonialismo italiano in
Eritrea (1882-1935) il governo della colonia considerava
senz'altro come italiani i bambini che la voce pubblica
identificava come figli di italiani, indipendentemente dal
riconoscimento formale da parte del padre.
Dopo la guerra italo-etiopica, l'Italia cambiò
repentinamente e drasticamente le proprie politiche razziali
in colonia. Innanzitutto, venne lanciata una violenta campagna
propagandistica contro quella che veniva definita "la piaga
del meticciato". Pseudo-scienziati dissertavano sulla stampa
su presunte tare fisiche e morali dei meticci, mentre i
politici ammonivano che il meticciato era la rovina degli
imperi e della civiltà. Tale campagna persecutoria nei
confronti delle unioni miste e dei meticci si tradusse anche
in provvedimenti legislativi. Con il regio decreto-legge 19
aprile 1937, n. 880, convertito, con modificazioni, dalla
legge 30 dicembre 1937, n. 2590, vennero proibite le
"relazioni di indole coniugale" tra un cittadino italiano ed
un suddito dell'Africa orientale italiana; successivamente, la
legge 29 giugno 1939, n. 1004, recante "Sanzioni penali per la
difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell'Africa
italiana", individuò esplicitamente la nascita di un bimbo
italo-eritreo come indizio del reato di relazione di indole
coniugale con una donna locale. Tali norme, evidentemente,
scoraggiarono fortemente i padri italiani dal riconoscere i
propri figli avuti da donne eritree.
Infine, le sciagurate "Norme relative ai meticci" (legge
13 maggio 1940, n. 822) proibirono esplicitamente al padre
italiano di riconoscere il proprio figlio meticcio (articolo
3), oltre a disporre altri odiosi provvedimenti discriminatori
(si disponeva, ad esempio, che il mantenimento del figlio
meticcio fosse ad esclusivo carico del genitore africano), il
cui senso complessivo era quello di assimilare in tutto e per
tutto i nati da unioni miste alla popolazione locale,
attribuendogli lo stesso status subordinato. E'
difficile esagerare le conseguenze negative di tale legge;
tale norma, in fatti, restò in vigore proprio in tutto il
periodo in cui la maggior parte dei bambini italo-eritrei fu
messa al mondo. Con la guerra di Etiopia la popolazione
italiana in Eritrea crebbe improvvisamente da meno di 5 mila
unità a circa 75 mila (per il 78 per cento uomini), senza
contare le numerosissime truppe di passaggio; tale massiccia
presenza di uomini soli portò, com'è facile intuire, ad
un'impennata nel numero delle nascite di italo-eritrei. Furono
probabilmente circa 10 mila i figli di unioni miste nati del
periodo di vigenza della legge. Tale norma fu abrogata solo
nel 1947, con decreto legislativo del Capo provvisorio dello
Stato n. 1096, che, oltre ad abrogare la legge n. 822 del
1940, tentò di riparare ai guasti della legislazione razziale,
prevedendo un canale privilegiato per l'acquisizione della
cittadinanza, per i nati da unioni miste. L'articolo 3,
infatti, disponeva che:
"Il nato nei territori dell'Africa Italiana o nel
territorio metropolitano dello Stato da genitore o genitori
ignoti, quando per qualsiasi motivo si possa fondatamente
ritenere che uno dei genitori sia cittadino italiano e l'altro
nativo dell'Africa Orientale Italiana od assimilato è
dichiarato cittadino italiano purché non sia poligamo.
(...)".
All'epoca dell'emanazione di tale norma, pero, l'Eritrea
era sotto l'amministrazione militare britannica e quindi la
normativa italiana era applicata nel Paese solo se fatta
propria da un proclama dell'amministratore. Purtroppo, fu solo
nel 1952 che l'amministratore britannico, con proclama n. 125
del 1952, abrogò la legge italiana n. 822 del 1940. A
quell'epoca, però, la maggior parte degli italiani aveva ormai
abbandonato la colonia, senza avere avuto la possibilità di
riconoscere il proprio figlio.
La situazione attuale.
Sono ormai poche centinaia (al momento risultano essere
335) gli italo-eritrei privi di cittadinanza italiana, che
stanno ancora tentando di ottenerla. In molti casi si tratta
di individui le cui condizioni economiche particolarmente
disagiate non avevano permesso di affrontare le spese legali,
in Eritrea e in Italia, necessarie per la complessa pratica
per l'ottenimento della cittadinanza.
Un'attenzione particolare merita il problema del cognome.
In Eritrea, come presso altre popolazioni, non si usa un
cognome transgenerazionale come si usa in Italia; al nome
della persona è invece affiancato il nome di battesimo del
padre. Così il figlio di Mario si chiamerà, mettiamo, Giuseppe
Mario, mentre il figlio di Giuseppe, Michele Giuseppe, e la
figlia di quest'ultimo si chiamerà Maria Michele, e così via.
I figli non riconosciuti di padre italiano si sono trovati
nella situazione, del tutto inedita in Eritrea, di non avere
un nome paterno da affiancare al proprio.
Bisogna tenere presente, a questo proposito, che secondo
le consuetudini eritree, la madre può, con dichiarazione
giurata, individuare il padre del proprio figlio. Da questa
dichiarazione inappellabile, della madre, derivano all'uomo
tutti gli onori e gli oneri della paternità. Quindi in Eritrea
prima dell'arrivo degli italiani, non esistevano figli di
padre ignoto.
L'ordinamento italiano non ammetteva, né ammette, tale
sistema per l'attribuzione della paternità; sicché è avvenuto
che i figli non riconosciuti di padre italiano hanno dovuto
affiancare al proprio nome non già il nome del padre, ma
quello della madre; si sono dunque chiamati, ad esempio,
Michele Maria, Giovanni Rachele e così via. Il figlio non
riconosciuto è stato dunque sempre immediatamente
identificabile, ed il portare il nome della madre anziché
quello del padre ha equivalso ad un marchio d'infamia. In una
società patriarcale come quella eritrea, l'identità della
persona è fondata sull'appartenenza al lignaggio paterno: i
bambini sin da piccoli imparano la genealogia paterna sino
alla settima generazione; sono educati secondo la religione e
le tradizioni paterne e parlano immancabilmente la lingua del
padre (infatti, gli italo-eritrei parlano sempre l'italiano, a
volte meglio della stessa lingua locale). In Eritrea, dunque,
l'individuo privo di padre si trova in una situazione di
particolare debolezza, oggetto di scherno e di
marginalizzazione.
Da ciò deriva l'urgenza, avvertita anche da individui che
non prevedono di trasferirsi in Italia, di recuperare il
cognome paterno.
La presente proposta di legge, stanti i vincoli e le
condizioni posti dall'articolo 4 della legge 5 febbraio 1992,
n. 91, è volta dunque a facilitare l'acquisizione della
cittadinanza di tanti italo-eritrei, attualmente sono circa
325, che da vari decenni non riescono, per una serie di
ostacoli pressoché insuperabili, ad ottenere tale
riconoscimento.
A parte, infatti, i seri dubbi circa la vigenza del
decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 3 agosto
1947, n. 1096, e comunque i vari ed onerosi adempimenti che
esso prevede, attualmente i principali ostacoli che si
presentano sono i seguenti:
molti italo-eritrei non conoscono luogo e data di
nascita del padre, nonché il nome del nonno paterno, ma tali
dati sono richiesti dall'ambasciata italiana per l'istruzione
della pratica;
alcuni italo-eritrei non conoscono affatto il cognome
del padre o sono del tutto privi di documenti che attestino
l'identità paterna;
i padri italiani sono ormai morti o comunque se ne sono
perse le tracce e spesso, a questo punto, anche le madri sono
morte;
nei certificati di nascita e/o di battesimo di alcuni
interessati tanto la data di nascita dell'interessato quanto
il nome del padre sono indicati in modo impreciso o
incompleto;
alcuni interessati hanno figli ormai maggiorenni, che
pure se i genitori riuscissero ad acquisire il cognome e la
cittadinanza, ne rimarrebbero privi; si verificherebbe così la
circostanza particolarmente dolorosa di figli che non possono
portare il cognome paterno;
diversi italo-eritrei sono morti ancor prima di aver
ottenuto il diritto di cittadinanza ed hanno lasciato al mondo
dei figli i quali non possono chiedere il riconoscimento per
via diretta.
La maggior parte degli interessati è però in grado di
produrre un certificato di battesimo, da cui risulta la
paternità italiana; per alcuni sono anche disponibili le
schede di accettazione negli orfanotrofi gestiti dai
missionari, in cui veniva annotata, nei casi di bambini non
legalmente riconosciuti, la paternità presunta. Tale
documentazione potrebbe essere considerata probante ai fini
dell'attribuzione della cittadinanza secondo le disposizioni
della presente proposta di legge, di cui si auspica la rapida
approvazione.