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La doppia verità del cardinal Martini

Postato in General il 7 ottobre, 2012

martini

Punto sul vivo dall’articolo della “Civiltà Cattolica” citato nel precedente post, Vito Mancuso ha pubblicato su “la Repubblica” del 6 ottobre un replica che così esordisce:

“Caro direttore, in un articolo dell’ultimo numero della ‘Civiltà Cattolica’ a firma Gianpaolo Salvini sul cardinal Martini si legge: ‘Con molta poca correttezza sono state usate come Prefazione [sue] lettere private, non destinate alla pubblicazione, con cenni di incoraggiamento, inviate a qualche autore che gli aveva fatto avere le bozze di un suo libro’.

E prosegue:

“Sandro Magister commenta così le parole della ‘Civiltà Cattolica’: ‘Chiara allusione a Vito Mancuso e al suo primo libro al quale la prefazione abusiva spianò il successo”.

“Penso che Magister in questo caso abbia ragione, la ‘Civiltà Cattolica’ intendeva alludere proprio a me e al mio libro ‘L’anima e il suo destino’ pubblicato nel 2007 presso Raffaello Cortina nella collana ‘Scienza e idee’ diretta dal filosofo della scienza Giulio Giorello. A parte il fatto che non si trattava del mio primo libro ma del sesto, posso attestare che conservo nel mio computer una mail del cardinal Martini in cui testualmente mi si dice: ‘Quanto al tuo libro, ho il rimorso di non aver fatto nulla. Forse mi puoi mandare la bozza del testo e posso scriverti una lettera, che se vuoi puoi pubblicare almeno in parte. Tuo Carlo Maria c. Martini, S. I.’.

“La mail è datata 2 novembre 2006 e posso esibirla agli interessati che ne facessero richiesta mediante un semplice clic. Martini mi scriveva di avere un rimorso perché in precedenza aveva rifiutato di scrivermi una prefazione a causa degli impegni e della salute declinante. Poi ci ripensò e fu lui a chiedermi le bozze, non io a inviargliele dietro mia iniziativa, come scrive erroneamente la ‘Civiltà Cattolica’, e fu sempre lui a dare il suo assenso alla pubblicazione della lettera che mi avrebbe scritto e che quindi scrisse sapendo che sarebbe stata pubblicata, del tutto al contrario rispetto a quanto afferma ancora una volta erroneamente la ‘Civiltà Cattolica’ parlando di ‘lettere private, non destinate alla pubblicazione’”.

Mancuso conclude scrivendo che con “falsità” come quella prodotta dalla “Civiltà Cattolica” si vogliono soffocare “le scomode profezie del cardinal Martini”.

In realtà, la sua replica mette nei guai proprio la memoria del defunto cardinale.

Che da una parte scriveva a Mancuso di pubblicare la sua lettera in testa a quello che sarebbe divenuto il suo primo libro di successo.

E dall’altra confidava all’amico e confratello GianPaolo Salvini – della cui sincerità non c’è ragione di dubitare ed è stato fino allo scorso anno direttore della “Civiltà Cattolica” – che quella prefazione gli era stata carpita “con molta poca correttezza”.

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NOTA BENE !

Il blog “Settimo cielo” fa da corredo al sito “www.chiesa”, curato anch’esso da Sandro Magister, che offre a un pubblico internazionale notizie, analisi e documenti sulla Chiesa cattolica, in italiano, inglese, francese e spagnolo.

Gli ultimi tre servizi di “www.chiesa”:

7.10.2012
> Dopo la condanna. Il maggiordomo e i suoi confidenti
Il direttore spirituale. Il cardinale Sardi. L’ex governante Ingrid Stampa. Tutti a sostegno del papa, a parole. Ma è Benedetto XVI la prima vittima del disastro

4.10.2012
> Diario Vaticano / Chi rifiuta il peccato originale
Nei circoli cattolici progressisti si tende a negare la sua realtà, o a trattarlo alla stregua di un “mito”. Il Concilio non ne ha fatto il nome, ma Paolo VI ha spiegato perché. Gli ultimi sviluppi della disputa

1.10.2012
> Il caso del vescovo licenziato. Una replica
Anna Hušcavová difende la correttezza del suo operato, come consulente amministrativa dell’arcidiocesi di Trnava. Ma le autorità vaticane tengono fermo il loro giudizio negativo, che ha portato alla rimozione di monsignor Bezák

“La Civiltà Cattolica” beatifica Martini. Ma castiga Vito Mancuso

Postato in General il 4 ottobre, 2012

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A voler compilare una classifica di qualità, il “ricordo personale” del cardinale Carlo Maria Martini scritto dal suo confratello gesuita GianPaolo Salvini e pubblicato sull’ultimo numero della “Civiltà Cattolica” balza al primo posto con distacco, rispetto alle memorie prodotte dopo la sua morte da tanti altri suoi ammiratori.

È un “ricordo” che si legge meritatamente d’un fiato. Ed è ricco di particolari inediti, di puntualizzazioni, di stoccate.

Ad esempio, Salvini scrive che “con molta poca correttezza sono state pubblicate senza autorizzazione conversazioni registrate senza averlo avvisato (come nel caso di una lunga conversazione con don Luigi Verzé), o sono state usate come ‘Prefazione’ lettere private, non destinate alla pubblicazione, con cenni di incoraggiamento, inviate a qualche autore che gli aveva fatto avere le bozze di un suo libro”.

Chiara allusione, nel secondo caso, a Vito Mancuso e al suo primo libro al quale la prefazione carpita spianò il successo: “L’anima e il suo destino”.

Martini tacque, in quella e in altre occasioni, secondo Salvini, perché “un pontefice o un vescovo particolarmente autorevole e ascoltato non può passare il tempo a smentire, o a far smentire, quanto gli viene attribuito da qualche organo di stampa”.

Più avanti Salvini scrive:

“La diocesi di Milano ha avuto nell’ultimo secolo una serie di eminenti arcivescovi, alcuni già sugli altari, mentre due sono diventati anche papi. Credo che il card. Martini figuri degnamente in questa serie, come ha dimostrato anche il consenso popolare dei suoi diocesani. Pur con i limiti che può aver avuto, come ogni persona mortale, egli ha scritto una pagina significativa nella storia della diocesi lombarda”.

E qui il contrappunto evidente è alla tesi del cardinale Giacomo Biffi secondo il quale l’ultimo grande vescovo ambrosiano è stato Giovanni Colombo, mentre i due successivi – Martini, appunto, e Dionigi Tettamanzi – non meritano tale qualifica.

L’articolo va letto tutto. Ma per gustarne un assaggio, ecco qui di seguito i paragrafi dedicati al Martini alpinista:

“Un aspetto relativamente poco noto del card. Martini era il suo amore per la natura, e per la montagna in particolare. [...] Paradossalmente, pur avendo fatto da giovane anche lunghe escursioni, tradizionali per gli studenti gesuiti, ha compiuto alcune delle salite più impegnative proprio nei primi anni del suo episcopato a Milano, quando la mancanza di allenamento poteva rendere più ardue, e certo più faticose, le sue ascensioni.

“Cercava di tenere libero il giovedì per queste uscite che avrebbe voluto mantenere riservate. In alcune decine di esse gli sono stato compagno, in genere con qualcun altro, gesuita o laico, e ne conservo un gradevole e umanissimo ricordo. Per alcune salite più impegnative di altre, come la ferrata alla Corna di Medale, l’abbiamo messo in cordata con alpinisti più affidabili. Ma era una persona che sapeva stupirsi, anche nelle semplici gioie di una salita in montagna, che preferiva godersi passo per passo.

“Gli aneddoti divertenti si sprecano. Una volta, sulla via del ritorno da una ferrata sui Corni di Canzo, sulla stradetta piuttosto monotona che riportava all’auto, si fermò una jeep della forestale, il cui autista, vedendoci forse un po’ affaticati (ma senza aver riconosciuto il cardinale), ci offrì un passaggio. Stavo per accettare con entusiasmo, ma mi prevenne il cardinale, dicendo: ‘No, grazie, preferiamo andare a piedi’.

“Oppure un parroco di un paese a nord della Brianza, saputo delle sue uscite in montagna, lo invitò per una gita ‘in famiglia’ sui monti di casa (’con qualche giovane di Azione Cattolica’) e, quando l’arcivescovo (allora non ancora cardinale) si presentò, aderendo all’invito, gli fece trovare il sindaco con la fascia tricolore, la banda municipale e uno stuolo di alcune centinaia di fedeli che lo accompagnarono trionfalmente sulla ‘loro’ montagna di casa. Preferiva perciò uscire dalla diocesi per non sentir dire dal parroco del posto: ‘Come, viene qui il mio vescovo, e non passa neppure a salutarmi?’.

“Una volta (una sola volta!) siamo andati in Val Taleggio (diocesi di Bergamo), dove pure venne riconosciuto, e mi raccontava che un sacerdote bergamasco gli aveva poi detto: ‘Eminenza, abbiamo saputo che lei va sempre in Val Taleggio. Perché non organizziamo una volta un incontro con i parroci della zona?’. E raccontandomi l’episodio aggiunse, da buon biblista: ‘Ecco, è così che nasce un midrash’ (cioè un’interpretazione che ha un nucleo, ma solo un nucleo, di verità).

“Neppure le gite in montagna sfuggirono all’immancabile deformazione. All’inizio degli anni Ottanta lessi su un quotidiano che il card. Martini, recatosi in Val di Fassa a salutare gruppi di ragazzi in vacanza organizzata da alcune parrocchie di Milano, non aveva saputo resistere al fascino delle Dolomiti e aveva aperto una nuova via di 5° grado su non so quale parete. Sembrandomi una notizia improbabile, gli chiesi che cosa ci fosse di vero ed egli mi rispose, con il solito umorismo, che effettivamente aveva compiuto una salita di 2°-3° grado accompagnato da una guida locale, ma che il giorno dopo alcuni istruttori di roccia della Scuola Alpina della Guardia di Finanza di Predazzo (o del centro di addestramento alpino della Polizia di Stato di Moena, non ricordo bene) avevano effettivamente aperto una nuova via di 5° grado e l’avevano dedicata a lui. Ma la versione fornita dal giornale aveva quanto meno ’sintetizzato’ troppe cose”.

Loreto ovvero la pietà popolare. I fendenti del cardinale Vegliò

Postato in General il 1 ottobre, 2012

loreto

Giovedì 4 ottobre Benedetto XVI si recherà a Loreto, mezzo secolo giusto dopo la visita che vi compì Giovanni XXIII. Il papa celebrerà la messa nella piazza antistante il santuario mariano.

Perché questo viaggio? I santuari sono il luogo per eccellenza della pietà popolare. Quella pietà che si esprime nei pellegrinaggi, nelle feste patronali, nella devozione a Maria e ai santi, nella recita del rosario. Contro la pietà popolare si avventò negli anni Sessanta e Settanta un’ondata di contestazione, in nome di una fede “pura” e “impegnata”. Ma da Paolo VI in poi, i papi reagirono a questa tendenza. Benedetto XVI è in questo molto deciso. Le immagini della sua vita privata lo mostrano mentre recita il rosario, nei giardini del Vaticano o di Castel Gandolfo, e prega davanti alla grotta della Madonna di Lourdes.

Quanto conti la pietà popolare nel vissuto dei cattolici comuni, in Italia, è confermato, tra l’altro, dagli indici di ascolto altissimi che ha il rosario trasmesso in diretta da Lourdes su TV 2000, ogni giorno alle 18 e in replica alle 20. Il cardinale Angelo Bagnasco, nella prolusione al consiglio permanente della CEI dello scorso 24 settembre, non ha mancato di rimarcarlo.

Per questo, è a maggior ragione interessante quanto ha detto di recente un altro cardinale, Antonio Maria Vegliò, presidente del pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, terreno di coltura primario per la pietà popolare.

In una conferenza dello scorso 20 settembre alla Rete Mariana Europea, il cardinale Vegliò ha ripercorso l’insegnamento del Concilio Vaticano II sulla pietà popolare.

Il Vaticano II – ha spiegato – la valorizzò come “praeparatio evangelica”, come atto del popolo di Dio, come espressione di inculturazione, come correlata alla liturgia.

Ma nonostante questo – ha proseguito il cardinale – nell’immediato dopoconcilio si assistette a “un tentativo di eliminare o, almeno, di ignorare le manifestazioni popolari della fede”, al quale seguì “una rivalutazione della pietà popolare da parte del magistero, della teologia, della pastorale e della liturgia”.

Ecco qui di seguito la sezione della conferenza che analizza, con una franchezza inusuale sulla bocca di un alto dirigente vaticano, l’ondata contestatrice degli anni Sessanta e Settanta.

Alla quale contribuì, a suo giudizio, anche il modo scriteriato con cui si realizzò la riforma liturgica.

*

L’INGANNO DI UNA RELIGIONE “PURA”

di Antonio Maria Vegliò

Nella valutazione negativa della religiosità popolare influirono sia cause interne che cause esterne all’ambito ecclesiale.

Fra le prime risaltarono l’esistenza di letture parziali e selettive dei testi conciliari durante il postconcilio, così come un’interpretazione parziale e interessata della sua dottrina.

Fra le seconde si deve censire l’importante influsso che esercitarono le teorie della secolarizzazione. L’accoglienza che molti ambiti ecclesiali diedero alla teologia della secolarizzazione comportava il disprezzo di un cristianesimo manifestato in forme esteriori, il cui esempio più evidente è, certamente, la religiosità popolare.

Questa fu considerata come un cattolicesimo superficiale, separato dalla vita e dagli impegni storici.

Uno dei risultati del Concilio fu la definizione della Chiesa come popolo di Dio, cosa che incoraggiò l’associazionismo laicale. In questo contesto sorsero piccoli gruppi che si consideravano più impegnati. Questi “cattolici dell’impegno” o “cattolici progressisti” adottarono un atteggiamento di contrapposizione ai cristiani che partecipavano alle manifestazioni della pietà popolare, considerandoli semplici, ritualisti, incapaci di adattarsi ai nuovi tempi e bisognosi di purificazione.

Al tempo stesso, accusarono la pietà popolare di avere sfumature superstiziose, di essersi allontanata dalla realtà, di alienarsi dall’impegno cristiano, di essere incapace di formare militanti e promuovere atteggiamenti evangelici che favorissero lo sviluppo e la liberazione.

Uno dei frutti più evidenti del Concilio fu la riforma liturgica. Tuttavia lo sviluppo di tale processo non fu sempre tanto opportuno quanto sarebbe stato auspicabile. Enumeriamo telegraficamente alcune caratteristiche che ebbero effetti contrari alle pratiche della pietà popolare.

In primo luogo, e frutto dell’entusiasmo che il Concilio suscitò in seno alla Chiesa, si pretese sviluppare tale riforma a un ritmo vertiginoso, senza tempo sufficiente per assimilare i testi conciliari e la loro conseguente applicazione alla Chiesa universale. Inoltre, e in qualche iniziativa, soggiacevano interpretazioni erronee o interessatamente parziali degli insegnamenti conciliari.

In non poche occasioni fu promossa una liturgia eccessivamente pragmatica, ove abbondavano gli elementi pedagogici e didascalici a scapito del suo carattere misterico, cosa che portò a trascurare canti, silenzi e gesti.

Uno degli obiettivi lodevoli era raggiungere un vissuto religioso purificato, tanto nell’ambito interno (le motivazioni), come nell’esterno (le forme). Il problema sorse nel modo concreto in cui questo si sviluppò. Fu promossa una religiosità pura, sradicata e astratta, che suppose, fra l’altro, l’eliminazione di tradizioni religiose, alle quali si attribuivano tratti magici, utilitaristici o superstiziosi.

L’affermazione conciliare della centralità della liturgia e della celebrazione eucaristica comportò che non pochi pastori sopprimessero molte pratiche popolari, per il fatto che la religiosità popolare si manifesta, in molteplici occasioni, con forme diverse da quelle previste dai testi liturgici ufficiali.

La riforma sottolineò anche la grande importanza che doveva avere la Sacra Scrittura nella celebrazione liturgica. E, di conseguenza, si valutò negativamente la scarsa presenza biblica nelle manifestazioni popolari, molte delle quali sono povere di teologia e di citazioni bibliche, ma ricche di sentimentalismo.

La promulgazione della costituzione “Sacrosanctum Concilium”, nel 1963, coincise con uno dei momenti in cui il movimento secolarizzante ebbe maggiore forza, e questo influenzò l’applicazione delle riforme conciliari. Da tale contesto, si assegnò alla liturgia un chiaro impegno temporale, con l’acquisizione di un tono profetico, la denuncia delle situazioni sociali di peccato e l’invito all’impegno. Per questo, la pietà popolare fu valutata negativamente, attribuendole un effetto anestetico di fronte ai problemi sociali.

Tutti questi elementi, che in qualche misura si fecero presenti durante la riforma liturgica postconciliare, si tradussero nella soppressione indiscriminata e arbitraria di numerose pratiche di pietà popolare.

In questo contesto sono eloquenti le parole che Paolo VI pronunciò nel 1973 durante un’udienza pubblica:

“Voci autorevoli ci raccomandano di consigliare grande cautela nel processo di riforma di tradizionali costumi popolari religiosi, badando a non spegnere il sentimento religioso, nell’atto di rivestirlo, di nuove e più autentiche espressioni spirituali: il gusto del vero, del bello, del semplice, del comunitario, e anche del tradizionale (ove merita d’essere onorato), deve presiedere alle manifestazioni esteriori del culto, cercando di conservarvi l’affezione del popolo”.

Quando liturgia fa rima con eresia

Postato in General il 26 settembre, 2012

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Proseguendo il suo ciclo di catechesi sulla preghiera, Benedetto XVI è passato oggi, mercoledì 26 settembre, dalla preghiera nella Scrittura alla preghiera nella liturgia.

Nella liturgia è Dio che “ci offre le parole”, ha detto il papa. “Noi dobbiamo entrare all’interno delle parole [liturgiche], nel loro significato, accoglierle in noi, metterci noi in sintonia con queste parole; così diventiamo figli di Dio, simili a Dio”.

Se dalla dottrina, però, si passa alla pratica, le cose cambiano. Si sa che vari preti hanno un concetto “creativo” della liturgia, nel quale gli attori e gli inventori sono loro.

In una parrocchia della Toscana, ad esempio, c’è un prete che fa e parla a modo suo, quando distribuisce la comunione. Evidentemente perché non crede nella presenza reale di Gesù nel pane e nel vino consacrati.

La cosa è arrivata all’orecchio del professor Pietro De Marco, che da Firenze ci ha trasmesso questo commento acuminato.

*

“IN MEMORIA DI CRISTO”

di Pietro De Marco

Mi raccontano, non senza preoccupata ironia, che un parroco di una diocesi toscana, noto per varie eccentricità, amministra l’eucaristia o, come dicono i messali, “presenta l’ostia” ai comunicandi, con le parole “In memoria di Cristo”, invece che con la vincolante ed essenziale formula: “Il corpo di Cristo”.

Poiché tale parroco ama dichiararsi un “professionista” ecclesiale, è certo che, da professionista, usa quella formula consapevolmente. Per esibire e trasmettere, senza timore, la sua negazione della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche.

Ora, sull’evento “reale” della consacrazione non vi è alcuna incertezza nella “lex orandi”, cioè negli enunciati del canone liturgico. Non per nulla, dopo le parole della consacrazione, il sacerdote “adora subito l’ostia”. E altrettanto dovrebbero fare i fedeli, invece del disordine dei comportamenti attuali e specialmente dello stare in piedi suggerito da qualche liturgista.

La dottrina della fede è altrettanto ferma e costante. Rileggiamo “pro memoria” il mai abrogato “Decretum de SS. Eucharistia” del Concilio di Trento, fino ai canoni conclusivi (Denzinger-Hünermann, nn. 1651-1656), e il recente e obbligante Catechismo della Chiesa Cattolica, promulgato esattamente venti anni fa, ai nn. 1373 e seguenti. Il Catechismo della Chiesa Cattolica va considerato la trascrizione di ciò che è dogmaticamente rilevante nel “corpus” dei documenti del Vaticano II.

La cultura teologica diffusa, invece, su questo punto ha oscillato e oscilla dannosamente, così da essere responsabile di questi effetti, anzitutto nel clero. L’arrischiato parroco di cui sopra è sicuramente il frutto degli insegnamenti ricevuti in seminario o in qualche facoltà teologica, o dei maestri della letteratura teologica internazionale, letta od orecchiata successivamente.

Leggevamo non ieri, ma anni fa, che la maggior parte del clero olandese delle ultime generazioni non crede nella presenza reale di Gesù nell’eucaristia. In ragione di cosa, se non di un insegnamento dogmatico e liturgico ammiccante e aberrante?

Quale che sia l’estensione delle responsabilità, l’uso della formula “In memoria di Cristo” in luogo di “Il corpo di Cristo” non è solo imprudente o inopportuno. È molto di più: suppone una convinzione che ad essere massimamente prudenti si direbbe che “ha sapore di eresia”.

Al caso particolare saprà far fronte il vescovo competente, dopo opportuna indagine. Interessa qui sottolineare, ancora una volta, lo scandalo continuato, anche su materie meno gravi, indotto da una spigliata confidenza, accoppiata ad ignoranza o a corruttela teologica, con la dottrina della fede. Preti come questi hanno deliberatamente distrutto in sé stessi e probabilmente nei collaboratori laici e in parte del loro popolo la verità sacramentaria, colpendo l’essenziale dell’esistenza e del fondamento della Chiesa: la retta fede del popolo cristiano.

E nel valutare questo peccato e “crimen” la Chiesa è sola. Non ha né il supporto né lo stimolo concorrenziale delle magistrature civili, come negli episodi di pedofilia. L’esercizio ispettivo e correttivo le spetta ed è tenuta ad esercitarlo. Azione doverosa e coraggiosa perché, appunto, il contesto generatore di questi fatti particolari è esteso. Non sarebbe difficile cogliere, in una quantità di libri teologici tradotti da editori cattolici, pagine (mai sottoposte a critica da chi dovrebbe) che istigano, di fatto, ad atti di svalutazione, metaforizzazione, vaga spiritualizzazione della transustanziazione, mascherati con parole equivoche.

L’eventualità che quanto nel piccolo caso toscano è esplicitato con sicumera sia in altri preti tenuto nascosto, nicodemiticamente, fa tremare. Il compito dell’imminente Sinodo dei vescovi, col suo esercito di periti sapientemente dosati, sarebbe a mio avviso non quello di confermare un cinquantennio di moderne esortazioni all’annuncio cristiano, ma di ricostruire energicamente nel clero e nel laicato quella comune dottrina della fede senza cui ogni enunciato che venga dalla Chiesa sarà indistinguibile da quelli del nichilismo ordinatore della postmodernità.

Se i vescovi di tutto il mondo, frenati da prudenze pastorali e di governo e talora da incertezza dottrinale, non avessero la forza di provvedere, toccherebbe ai semplici fedeli – quelli che in virtù di una buona formazione cristiana ancora possono farlo – discernere opinioni e condotte diffuse palesemente erronee, catechismo alla mano, e dire “no”.

Libano. La tempesta dopo la quiete

Postato in General il 20 settembre, 2012

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Tornato a Roma, nel commentare il suo viaggio in Libano nell’udienza generale di mercoledì 19 settembre, Benedetto XVI ha di nuovo indicato in quel paese un esempio “emblematico per tutta la regione, a motivo della sua tradizione di convivenza e di operosa collaborazione tra le diverse componenti religiose e sociali”.

Anche uno dei più autorevoli analisti, il gesuita Samir Khalil Samir, specialista dell’islam e docente all’Université Saint-Joseph di Beirut, in una nota su “Asia News” del 20 settembre ha indicato nel Libano il più avanzato modello di convivenza che si conosca nel Medio Oriente tra religioni, lingue, comunità diverse:

“La strada del Libano è una strada efficace perché ha sviluppato un elemento presente nell’impero ottomano, riconoscendo ogni comunità e legandola allo Stato attraverso il capo di quella comunità (si tratta del ‘millet’, una parola araba pronunciata in turco, che significa ‘confessione’ e più esattamente ‘comunità religiosa legalmente protetta’). [...] Questo ha creato una realtà diversificata,  che rispetta la religione all’interno di una sana laicità. Certo, vi è anche il rischio che le comunità diventino un ghetto e che ognuna rimanga chiusa in se stessa, ma, alla fine, questo stile libanese mi sembra buono e credo possa offrirsi davvero come modello per il Medio Oriente”.

Un altro rinomato analista di politica internazionale, però, il professor Vittorio Emanuele Parsi dell’Università Cattolica di Milano, ha sollevato seri dubbi su questa visione ottimistica, in un editoriale su “Avvenire” del 19 settembre, anch’esso a commento del viaggio del papa.

Quella “guerra civile di religione” – fa notare Parsi – che in Europa ebbe la sua ultima e tremenda fase nella prima metà del Seicento nella Germania di Joseph Ratzinger, nel Medio Oriente è ancora in pieno corso tra sciiti e sunniti, cioè “tra le due versioni maggioritarie  dell’islam, che ogni volta che vengono politicizzate divengono irrimediabilmente ostili e reciprocamente intolleranti”.

E prosegue:

“Quello che finora ha tenuto il Libano fuori da questa dinamica micidiale è stata proprio la presenza cristiana. È la presenza cristiana, con i suoi numeri ancora significativi, che ha finora impedito a Nashrallah di andare alla resa dei conti con i sunniti, in sostegno dell’amico e protettore Assad e dell’Iran che foraggia entrambi”.

Ma nello stesso tempo – nota ancora Parsi – il fatto che in Libano “la definizione delle comunità passi per la declinazione politica delle appartenenze religiose” rende questo equilibrio molto precario:

“I quindici anni di guerra civile che tra il 1975 e il 1990 hanno squassato il Paese dei Cedri, ammoniscono della oggettiva pericolosità di questa relazione”.

Padre Samir, nel suo commento, si felicita per l’accorrere di molti musulmani alla visita di Benedetto XVI. “Soprattutto gli sciiti – scrive – hanno voluto manifestare il loro appoggio”.

Ma Parsi fa notare che “non son dovute passare nemmeno 24 ore dalla partenza del pontefice da Beirut perché il leader degli sciiti libanesi, Nasrallah, scendesse in piazza per invitare tutti i musulmani – sciiti e sunniti – a vendicare l’affronto che il Profeta avrebbe subito a causa di un filmetto tanto cretino e insignificante quanto blasfemo. Era lo stesso Nasrallah che aveva reso omaggio al papa appena poche ore prima, nella sua veste di capo spirituale degli sciiti, che ora apostrofava le folle come leader del movimento politico di Hezbollah, rendendo così plasticamente visibile quanto sia pericolosa la commistione tra politica e religione”.

“Stabat mater dolorosa”. Gaudio e pianto sulla musica sacra

Postato in General il 18 settembre, 2012

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Il concerto che sul finire di questa estate il cardinale Domenico Bartolucci offrirà a Benedetto XVI non si terrà come lo scorso anno nel palazzo pontificio di Castel Gandolfo, ma nella grandiosa basilica romana di San Paolo fuori le Mura.

Lo eseguiranno, giovedì 20 settembre alle 21, la Bohuslav Martinu Philarmonic Orchestra diretta da Walter Attanasi, con tre cori della città di Bratislava e con la soprano solista Juyeon Song. L’ingresso è gratuito.

Il programma comprende il “Requiem” in do minore per coro e orchestra di Luigi Cherubini e lo “Stabat Mater” per soprano, coro e orchestra composto dallo stesso Bartolucci per le liturgie papali in San Pietro, un autentico capolavoro di questo intramontabile interprete della grande musica sacra, che a 95 anni compiuti ancora compone e dirige.

Infatti, in concomitanza con questo concerto, sono usciti due nuovi CD della collezione delle opere della scuola polifonica romana, da Palestrina ai nostri giorni, dirette da Bartolucci e comprendenti anche alcune sue composizioni.

Il primo CD allinea dodici composizioni organistiche dello stesso Bartolucci, suonate da Lorenzo Bonoldi sul moniumentale organo “Mascioni 1932″ del Pontificio Istituto di Musica Sacra.

L’altro CD, registrato a cappella dal coro della Fondazione Domenico Bartolucci diretto dallo stesso Maestro, comprende cinque composizioni sue e sette di Palestrina, tra le quali lo “Stabat mater” a 8 voci.

Diretto da Bartolucci, universalmente conosciuto come il più geniale interprete vivente di Palestrina, questo “Stabat mater” è di un rilievo unico.

Per avvertirne la straordinaria grandezza, basta confrontare questa sua esecuzione con quella, miserevole, dello stesso “Stabat mater” palestriniano uscita recentemente in un altro CD, ad opera del coro della Cappella Sistina e dell’attuale suo direttore, il salesiano Massimo Palombella.

Palombella è il secondo successore di Bartolucci alla direzione della Sistina.

La cacciata di Bartolucci da questo ruolo, nel 1997, ha segnato una drammatica caduta di qualità del coro che accompagna le liturgie papali, i cui effetti sono oggi sempre più manifesti.

E come non bastasse, un sodale di Palombella, monsignor Vincenzo De Gregorio, è stato insediato proprio in questo mese di settembre alla presidenza del Pontificio Istituto di Musica Sacra, fino a ieri, in Vaticano, ultimo ridotto di resistenza del fronte che ha nel cardinale Bartolucci il suo massimo ispiratore.

In Libano ritorna in auge l’imperatore Costantino

Postato in General il 15 settembre, 2012

costantino

Nel discorso col quale ha accompagnato la firma dell’esortazione apostolica a coronamento del sinodo per il Medio Oriente, nella basilica di San Paolo a Harissa, Benedetto XVI non ha temuto di richiamare in chiave positiva la memoria di un imperatore molto controverso, Costantino, autore nel 313 dopo Cristo di quell’editto che diede la libertà ai cristiani ma insieme inaugurò un “regime di cristianità” contro cui si sono scagliati molti tra gli stessi cattolici, specie durante e dopo il Concilio Vaticano II.

Un libro recentissimo fa il punto sulla controversia, dal punto di vista dei contestatori:

Gianmaria Zamagni, “Fine dell’era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico”, il Mulino, Bologna, 2012.

Ma anche i difensori di Costantino hanno le loro buone ragioni, ad esempio quelle che un grande teologo come Jean Daniélou mise in luce in un suo libro del 1965 dal titolo: “La preghiera problema politico”.

Daniélou rimproverava agli anticostantiniani di volere una Chiesa “pura”, simile a “una confraternita degli iniziati”, e con ciò di perdere proprio quei “poveri” che a loro starebbero tanto a cuore: i poveri “nel senso dell’immensa marea umana”, fatta anche di “quei numerosi battezzati per i quali il cristianesimo è più che altro una pratica esteriore”.

Per Daniélou la Chiesa non dev’essere “svincolata dalla civiltà in cui si teme possa compromettersi”. Al contrario, è essenziale che “si impegni nella civiltà, perché un popolo cristiano è impossibile in una civiltà che gli sia contraria”. Di qui la difesa che egli fece di Costantino, l’imperatore romano che per primo consentì al cristianesimo di diventare una religione di massa:

“Questa estensione del cristianesimo a un immenso popolo, che rientra nella sua essenza, era stata ostacolata durante i primi secoli dal fatto che andava sviluppandosi all’interno di una società [...] ostile. L’appartenenza al cristianesimo richiedeva quindi una forza di carattere di cui la maggior parte degli uomini è incapace. La conversione di Costantino, eliminando questi ostacoli, ha reso il Vangelo accessibile ai poveri, cioè proprio a quelli che non fanno parte delle élite, all’uomo della strada. Lungi dal falsare il cristianesimo, gli ha permesso di perfezionarsi nella sua natura di popolo”.

Non è un mistero che Joseph Ratzinger, come teologo e come papa, abbia sempre condiviso tali posizioni.

Ecco infatti come si è riferito a Costantino nel primo discorso importante del suo viaggio in Libano, nel pomeriggio di venerdì 14 settembre:

*

“NON TEMERE, PICCOLO GREGGE, E RICORDATI DELLA PROMESSA FATTA A COSTANTINO…”

È provvidenziale che questo atto [la firma dell'esortazione apostolica postsinodale "Ecclesia in Medio Oriente"] abbia luogo proprio nel giorno della festa dell’Esaltazione della Santa Croce, la cui celebrazione è nata in Oriente nel 335, all’indomani della dedicazione della Basilica della Resurrezione costruita sul Golgota e sul sepolcro di Nostro Signore dall’imperatore Costantino il Grande, che voi venerate come santo. Fra un mese si celebrerà il 1700.mo anniversario dell’apparizione che gli fece vedere, nella notte simbolica della sua incredulità, il monogramma di Cristo sfavillante, mentre una voce gli diceva: “In questo segno, vincerai!”. Più tardi, Costantino firmò l’editto di Milano [che diede la libertà ai cristiani].

“Ecclesia in Medio Oriente” [...] vuole tracciare una via per ritrovare l’essenziale: la “sequela Christi”, in un contesto difficile e talvolta doloroso, un contesto che potrebbe far nascere la tentazione di ignorare o dimenticare la Croce gloriosa. È proprio adesso che bisogna celebrare la vittoria dell’amore sull’odio, del perdono sulla vendetta, del servizio sul dominio, dell’umiltà sull’orgoglio, dell’unità sulla divisione. [...] Questo è il linguaggio della croce gloriosa! Questa è la follia della croce: quella di saper convertire le nostre sofferenze in grido d’amore verso Dio e di misericordia verso il prossimo; quella di saper anche trasformare degli esseri attaccati e feriti nella loro fede e nella loro identità, in vasi d’argilla pronti ad essere colmati dall’abbondanza dei doni divini più preziosi dell’oro (2 Cor 4, 7-18). Non si tratta di un linguaggio puramente allegorico, ma di un appello pressante a porre degli atti concreti che configurano sempre più a Cristo, atti che aiutano le diverse Chiese a riflettere la bellezza della prima comunità dei credenti (At 2, 41-47); atti simili a quelli dell’imperatore Costantino che ha saputo testimoniare e far uscire i cristiani dalla discriminazione per permettere loro di vivere apertamente e liberamente la loro fede nel Cristo crocifisso, morto e risorto per la salvezza di tutti. [...]

“Non temere, piccolo gregge” (Lc 12,32) e ricordati della promessa fatta a Costantino: ”In questo segno, tu vincerai!”.

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L’indomani, sabato 15 settembre, Benedetto XVi è tornato a insistere sull’esigenza della piena libertà religiosa – assicurata da Costantino all’impero del suo tempo ma tuttora assente nel Medio Oriente musulmano, con la sola eccezione del Libano – nel discorso che ha tenuto nel palazzo presidenziale di Baadba ai rappresentanti della repubblica libanese, ai membri del governo, ai capi religiosi e agli uomini della cultura:

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“VIVERE LIBERAMENTE LA PROPRIA RELIGIONE…”

La specificità del Medio Oriente consiste nella mescolanza secolare di componenti diverse. Certo, ahimè, esse si sono anche combattute! Una società plurale esiste soltanto per effetto del rispetto reciproco, del desiderio di conoscere l’altro e del dialogo continuo. Questo dialogo tra gli uomini è possibile solamente nella consapevolezza che esistono valori comuni a tutte le grandi culture, perché sono radicate nella natura della persona umana. Questi valori, che sono come un substrato, esprimono i tratti autentici e caratteristici dell’umanità. Essi appartengono ai diritti di ogni essere umano. Nell’affermazione della loro esistenza, le diverse religioni recano un contributo decisivo. Non dimentichiamo che la libertà religiosa è il diritto fondamentale da cui molti altri dipendono. Professare e vivere liberamente la propria religione senza mettere in pericolo la propria vita e la propria libertà deve essere possibile a chiunque. La perdita o l’indebolimento di questa libertà priva la persona del sacro diritto ad una vita integra sul piano spirituale. La sedicente tolleranza non elimina le discriminazioni, talvolta invece le rinforza. E senza l’apertura al trascendente, che permette di trovare risposte agli interrogativi del cuore sul senso della vita e sulla maniera di vivere in modo morale, l’uomo diventa incapace di agire secondo giustizia e di impegnarsi per la pace. La libertà religiosa ha una dimensione sociale e politica indispensabile alla pace! Essa promuove una coesistenza ed una vita armoniose attraverso l’impegno comune al servizio di nobili cause e la ricerca della verità, che non si impone con la violenza ma con “la forza stessa della verità” (Dignitatis humanae, 1), quella verità che è in Dio. Perché la fede vissuta conduce inevitabilmente all’amore”. [...]

Il Libano è chiamato, ora più che mai, ad essere un esempio. Politici, diplomatici, religiosi, uomini e donne del mondo della cultura, vi invito dunque a testimoniare con coraggio intorno a voi, a tempo opportuno e inopportuno, che Dio vuole la pace, che Dio ci affida la pace.

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Il programma e i discorsi integrali di Benedetto XVI in LIbano:

> Viaggio apostolico in Libano, 14-16 settembre 2012

Antiriciclaggio. Il Vaticano fa campagna acquisti in Svizzera

Postato in General il 12 settembre, 2012

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L’11 settembre la Radio Vaticana ha dato notizia che la Santa Sede ha scritturato in pianta stabile uno dei massimi esperti internazionali nella lotta al riciclaggio di denaro di origine illecita e al finanziamento del terrorismo.

Si tratta di René Brülhart, 40 anni, un legale originario di Friburgo, in Svizzera, che è stato per otto anni direttore della Financial Intelligence Unit del Liechtenstein e nel 2010 è stato anche nominato vicepresidente del Gruppo Egmont, la rete mondiale di queste unità di controllo.

Padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana, in un comunicato diffuso in inglese ha spiegato che la chiamata di Brülhart è un chiaro segnale della volontà della Santa Sede di “continuare efficacemente sulla strada intrapresa della trasparenza e dell’affidabilità finanziaria, dell’efficacia delle misure per la lotta contro il riciclaggio”.

Brülhart ha iniziato con settembre il suo servizio. Tra i suoi compiti c’è quello di aggiornare il sistema vaticano dando attuazione alle richieste del rapporto Moneyval dello scorso luglio.

Il rafforzamento dei poteri di controllo dell’Autorità di Informazione Finanziaria presieduta dal cardinale Attilio Nicora è una di queste richieste.

Sarà interessante vedere come si concilierà l’opera di Brülhart con quella di questo organismo, i cui due principali esperti, Marcello Condemi e Francesco De Pasquale, entrambi della covata della Banca d’Italia e ivi chiamati dal cardinale Nicora e dall’allora presidente dello IOR Ettre Gotti Tedeschi, si sentiranno prevedibilmente scavalcati dall’arrivo del loro collega e rivale svizzero.

Papa Benedetto, la “sporca latrina” e “l’Israele diventato universale”

Postato in General il 4 settembre, 2012

benedetto

Domenica 2 settembre, proprio mentre faceva il giro del mondo il “testamento spirituale” del cardinale Carlo Maria Martini, cioè la sua ultima intervista pubblicata post mortem di critica alla Chiesa “rimasta indietro di 200 anni”, anche Benedetto XVI ha preso di petto la questione della crisi della Chiesa, nell’omelia dettata a Castel Gandolfo ai suoi ex allievi di teologia riuniti nell’annuale seminario del Ratzinger Schülerkreis.

“Anche nella Chiesa – ha detto il papa – elementi umani si aggiungono e conducono o alla presunzione, al cosiddetto trionfalismo che vanta se stesso invece di dare la lode a Dio, o al vincolo, che bisogna togliere, spezzare e schiacciare. Che dobbiamo fare? Che dobbiamo dire? Penso che ci troviamo proprio in questa fase, in cui vediamo nella Chiesa solo ciò che è fatto da se stessi, e ci viene guastata la gioia della fede; che non crediamo più e non osiamo più dire: egli, Dio, ci ha indicato chi è la verità, che cos’è la verità, ci ha mostrato che cos’è l`uomo, ci ha donato la giustizia della vita retta. Noi siamo preoccupati di lodare solo noi stessi, e temiamo di farci legare da regolamenti che ci ostacolano nella libertà e nella novità della vita”.

E ancora:

“L’idea di verità e di intolleranza oggi sono quasi completamente fuse tra di loro, e così non osiamo più credere affatto alla verità o parlare della verità. Sembra essere lontana, sembra qualcosa a cui è meglio non fare ricorso”.

E più avanti, “circa l’intellettualizzazione della fede e della teologia”:

“È un mio timore in questo tempo, quando leggo tante cose intelligenti: che diventi un gioco dell’intelletto nel quale ‘ci passiamo la palla’, nel quale tutto è solo un mondo intellettuale che non compenetra e forma la nostra vita, e che quindi non ci introduce nella verità”.

A ciascuna di queste critiche Benedetto XVI ha dato delle risposte. Che egli ha così condensato al termine dell’omelia, con un’audace citazione dell’amatissimo san Bonaventura:

“Lasciamoci riempire di nuovo di questa gioia: dov’è un popolo al quale Dio è così vicino come il nostro Dio lo è a noi? Così vicino da essere uno di noi, da toccarmi dal di dentro. Sì, da entrare dentro di me nella santa eucaristia. Un pensiero perfino sconcertante. Su questo processo, san Bonaventura ha utilizzato, una volta, nelle sue preghiere di comunione, una formulazione che scuote, quasi spaventa. Egli dice: mio Signore, come ha potuto venirti in mente di entrare nella sporca latrina del mio corpo? Sì, lui entra dentro la nostra miseria, lo fa con consapevolezza e lo fa per compenetrarci, per pulirci e per rinnovarci, affinché, attraverso di noi, in noi, la verità sia nel mondo e si realizzi la salvezza. Chiediamo al Signore perdono per la nostra indifferenza, per la nostra miseria che ci fa pensare solo a noi stessi, per il nostro egoismo che non cerca la verità, ma che segue la propria abitudine, e che forse spesso fa sembrare il cristianesimo solo come un sistema di abitudini. Chiediamogli che egli entri, con potenza, nelle nostre anime, che si faccia presente in noi e attraverso di noi – e che così la gioia nasca anche in noi: Dio è qui, e mi ama, è la nostra salvezza! Amen”.

All’inizio di questa stessa omelia, Benedetto XVI ha anche espresso con parole inconsuete il rapporto tra Israele e la Chiesa. Non ha definito la Chiesa “nuovo Israele”, ma “l’Israele che è diventato universale”.

Ecco il passaggio per esteso:

“Secondo la nostra fede, la Chiesa è l’Israele che è diventato universale, nel quale tutti diventano, attraverso il Signore, figli di Abramo; l’Israele diventato universale, nel quale persiste il nucleo essenziale della legge, privo delle contingenze del tempo e del popolo. Questo nucleo è semplicemente Cristo stesso, l’amore di Dio per noi ed il nostro amore per lui e per gli uomini. Egli è la Torah vivente, è il dono di Dio per noi, nel quale, ora, riceviamo tutti la saggezza di Dio. Nell’essere uniti con Cristo, nel con-camminare e con-vivere con lui, impariamo noi stessi come essere uomini in modo giusto, riceviamo la saggezza che è verità”.

Martini, “grande elettore” immaginario

Postato in General il 1 settembre, 2012

martini

Negli “obituaries” pubblicati in morte del cardinale Carlo Maria Martini non è mancata la riproposizione insistita di quella leggenda metropolitana che lo dipinge come grande elettore di Benedetto XVI nel conclave del 2005.

In realtà, in quel conclave le cose pare siano andate molto diversamente. Come è ben descritto in questa nota non firmata uscita su “il Foglio” nell’aprile del 2007, quando la leggenda si era ormai consolidata.

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Ha suscitato una certa ilarità nei Sacri Palazzi la ricostruzione del conclave che nel 2005 elesse papa Benedetto XVI fatta domenica scorsa su “La Stampa”. Secondo il quotidiano torinese, alla prima votazione di lunedì 18 aprile 2005 i cardinali elettori avrebbero attribuito 56 voti al cardinale Carlo Maria Martini, 51 al cardinale Joseph Ratzinger e 18 al cardinale Angelo Sodano. Alla seconda i voti sarebbero stati più o meno gli stessi, alla terza i presunti suffragi sodaniani sarebbero confluiti sul porporato tedesco e alla quarta, quella decisiva, anche Martini avrebbe fatto votare per l’allora decano del sacro Collegio.

L’ilarità non è dovuta solo al fatto che alla prima votazione i voti validi sarebbero stati in totale ben 125, mentre è noto che gli elettori erano 115 , ma principalmente al fatto che voti e dinamiche non furono affatto queste.

È comunque vero che fin dall’inizio, riguardo al conclave del 2005, un ruolo importante e addirittura decisivo, nell’elezione del successore di Giovanni Paolo II, è stato attribuito all’arcivescovo emerito di Milano.

Il 20 aprile il “Corriere della Sera” titolò “E il rivale Martini dà il via libera”. “Il Riformista” del 21 aprile titolò “Martini e Re i grandi elettori”. “La Repubblica” del 26 maggio poi definì Martini come “il grande elettore di Joseph Ratzinger”. Scese in campo persino Eugenio Scalfari che sul “Venerdì di Repubblica” del 5 maggio 2005 confermò queste voci scrivendo che “alcuni cardinali anziani, esclusi per ragioni di età dal conclave, hanno confermato che effettivamente, fin dalla terza votazione, i voti ‘martiniani’ hanno cominciato a confluire su Ratzinger”. Poco dopo, Giancarlo Zizola e Alberto Melloni su “il Mulino” del maggio-giugno 2005 fecero sostanzialmente proprie queste conclusioni.

Il primo a confutare seriamente queste voci è stato un giornalista americano, John L. Allen jr, vaticanista del settimanale progressista statunitense “National Catholic Reporter” e autore di una biografia critica del cardinale Ratzinger.

Allen nel suo libro “The rise of Benedict XVI” (Doubleday, 2005), in base a colloqui avuti con otto cardinali elettori, esclude che Martini abbia avuto un ruolo centrale nel conclave, che abbia avuto un numero significativo di suffragi e che abbia esternato sue adesioni finali alla candidatura di Ratzinger.

“Per la maggior parte dei cardinali – scrive Allen – la teoria che Martini si sia formalmente ritirato dalla corsa sembra essere stata un esercizio “ex post” fatto tra i progressisti storditi, alla ricerca di qualche spiegazione per come l’elezione di Ratzinger possa essere accaduta così velocemente”.

Ma la ricostruzione più dettagliata e più attendibile del conclave del 2005 rimane quella fornita dal vaticanista Lucio Brunelli su “Limes” (10/2005) e basata sulle rivelazioni di un cardinale elettore.

In base a questa ricostruzione Ratzinger avrebbe avuto da subito un cospicuo numero di voti (47 su 115), e avrebbe sempre aumentato i suffragi fino a raggiungere e superare la fatidica quota dei due terzi alla quarta votazione.

Sempre secondo questa ricostruzione, il cardinale Carlo Maria Martini, considerato il candidato di bandiera anti-Ratzinger, non sarebbe stato mai in partita, avendo ottenuto solo 9 voti al primo scrutinio. Il candidato che avrebbe ottenuto più voti dopo Ratzinger sarebbe stato il gesuita argentino Jorge Mario Bergoglio, sul quale, a parte un gruzzolo di 10 voti raccolti in prima battuta, si sarebbero riversati i consensi dei “martiniani” e degli altri che non volevano che Ratzinger diventasse papa. In pratica, Ratzinger sarebbe stato l’unico vero candidato in corsa (Camillo Ruini avrebbe preso non più di sei voti e lo stesso Sodano non più di quattro).

Nei Sacri Palazzi si fa notare che questa ricostruzione, aldilà di qualche lieve imprecisione numerica, è sostanzialmente veritiera. E a maggior ragione ci si chiede chi possa aver interesse a far circolare altre versioni perlomeno strampalate.

Così come d’altra parte ci si chiede il perché la stampa periodicamente tenda a presentare Martini come il grande oppositore del pontificato ratzingeriano, una sorta di antipapa del XXI secolo. Tanto più che questo filo-martinismo anti-ratzingeriano dei massmedia non sembrerebbe avere il gradimento dello stesso Martini, il quale avrebbe fatto sapere in alto di non riconoscersi affatto nel ritratto che fa di lui il mondo giornalistico. Quello del circo mediatico sarebbe insomma un martinismo senza Martini.

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Per una più dettagliata sintesi delle indiscrezioni di “Limes” sul reale andamento del conclave, si veda l’articolo di Andrea Tornielli su “La Stampa” del 2 settembre:

> Il candidato liberal che non fu mai in gioco per il soglio di Pietro

Secondo tale ricostruzione, nemmeno dopo la terza votazione Martini avrebbe agito per far confluire dei voti su Ratzinger, già arrivato a 77 voti contro i 40 andati all’argentino Bergoglio. Anzi, “convinto che nessuno avrebbe raggiunto il quorum, Martini si sarebbe avvicinato a un collega preannunciadogli: ‘Domani grandi novità…’. Un’allusione alla possibilità che dal giorno successivo il conclave si sarebbe indirizzato su un terzo candidato, di compromesso. Ma due ore dopo il settantottenne papa tedesco si affacciava a benedire i fedeli”.

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