Borsa
MIBTEL -0,12 DOW JONES 0,43
S&P/MIB -0,20 NASDAQ 1,15



Lavoro & concorsi
I servizi di Repubblica.it
 Repubblica in edicola
 Leggi il giornale
Cerca conGoogle
 Le cronache delle città
 
 La Borsa
 Cerca il titolo
 
 La Borsa di Repubblica
 La lettera finanziaria
 di Giuseppe Turani
 KwFinanza
 KwFinanza EXTRA
Repubblica.it propone
 
   CRONACA
Sotto il profilo giudiziario l'interrogatorio non offre spunti
Ma politicamente la ricostruzione - se autentica - è micidiale
Giuffrè, gli obiettivi
della confessione
di GIUSEPPE D'AVANZO

ANTONINO Giuffrè, il mafioso che è stato definito (a torto o a ragione) il braccio destro di Bernardo Provenzano, ricostruisce con toni gelidi la storia di "un patto" tra la nascente Forza Italia e la Cosa Nostra dei Corleonesi. Si è sempre pensato che quel rapporto, già nelle "carte" del processo Dell'Utri, fosse stato condotto da mediatori discreti. Giuffrè liquida questa convinzione e svela di peggio: quel rapporto tra la Mafia e Berlusconi era diretto.

Dice Giuffrè: "Chiesi a Carlo Greco se, di queste persone che hanno "i contatti", ci si potesse fidare; insomma, se erano persone serie". "Carlo Greco mi rispose che non c'erano problemi perché erano persone che fanno quello che noi ci diciamo". I nomi: i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano della "famiglia" di Brancaccio, il loro "prestanome", Gianni Jenna. I procuratori chiedono: "I Graviano e Jenna avrebbero fatto da tramite con altre persone?". Giuffrè li interrompe e chiarisce: "Con Berlusconi, direttamente". "Direttamente?", chiedono increduli i pubblici ministeri. "Direttamente", ripete il mafioso.

Siamo tra settembre e ottobre del 1993. È dalla primavera che dentro Cosa Nostra è diffusa la convinzione di dover cercare nuovi e affidabili referenti politici. Niente a che fare con i "soliti noti" della Prima Repubblica, quelli che alla fine hanno avuto paura e hanno voltato le spalle alla Mafia. Ci vogliono "uomini nuovi" in un nuovo partito. Quel matto di Leoluca Bagarella pensa di fare da solo. Progetta, e per qualche tempo realizza, l'idea di fondare un partito. Lo chiama "Sicilia Libera", è il formato fotocopia, al Sud, della Lega Nord. L'idea non sta in piedi. Troppi uomini d'onore si muovono dietro quella sigla. Prima di nascere come partito, "Sicilia libera" è già inchiesta giudiziaria. Bernardo Provenzano non è un fesso. Non crede in quell'iniziativa e appare a Giuffrè sereno e molto informato di quel che si muove in un'altra parte d'Italia. Il Capo dei Capi, ora che Riina è in galera, può contare su tre promettenti canali, a credere in Giuffrè. Il primo scorre da Agrigento e Sciacca verso Milano e si muove da Giovanni Brusca e Salvatore Di Ganci fino a un avvocato già noto alle cronache, Massimo Maria Berruti (già ufficiale della Guardia di Finanza, collaboratore di Berlusconi, ora onorevole di Forza Italia). Il secondo canale arriva fino a Marcello Dell'Utri attraverso Vittorio Mangano, "stalliere" di Arcore. Il terzo è in appalto ai "palermitani" di Brancaccio, i fratelli Graviano, appunto. Tutte le strade, dice sorprendentemente Giuffrè, giungono a Silvio Berlusconi, "una persona abbastanza capace di poter portare avanti, diciamo, un pochino le sorti dell'Italia".

Lungo questi canali "diretti", Provenzano propone a Milano quelle che chiama "le domande" di Cosa Nostra. Spiega Giuffrè: "Interessava il discorso dei carcerati, il 41bis... Abbiamo il problema della revisione dei processi, abbiamo il problema dei pentiti, abbiamo il problema dei sequestri dei beni e sono i discorsi più importanti. Ne resta ancora uno, un certo alleggerimento della magistratura nei confronti degli imputati, nelle condanne diciamo, questa impunità di cui avevamo in precedenza parlato: associazione mafiosa sì, ma niente ergastoli". Nella direzione opposta, da Milano a Palermo, arrivano presto le "risposte" e sono buone, sono così positive da creare "euforia" e "ottimismo" tra gli "uomini d'onore". Provenzano conferma a Giuffrè la buona novella: "Amu a vutare Forza Italia". Naturalmente, chiarisce il Capo dei Capi, ci sono garanzie da offrire al potere politico. Niente più stragi, ammazzamenti, clamore. Le cose devono filare lisce come olio. Mai più a braccetto con i candidati alle elezioni. Quelli devono essere lasciati in pace, guidati nell'ombra e a distanza, per non "sporcarli", per non metterli "sotto scacco" della magistratura. Così, conclude Giuffrè, "ci siamo ufficialmente imbarcati sulla barca di Forza Italia". Provenzano raffredda l'entusiasmo dei suoi. Dice loro che "bisogna avere pazienza", che i "problemi di Cosa Nostra sono macigni più che problemi" e per rimuoverli ci vorranno "dieci anni". Se Giuffrè non conta frottole, a ottobre del 2002 è cominciato l'ultimo anno del "patto". Se Giuffrè non conta frottole, si comprende perché in questi ultimi mesi i Capi di Cosa Nostra sono in fibrillazione. Bagarella conciona dalla cella che "non sono stati mantenuti i patti". I Graviano, giusto loro, fanno sapere dal carcere di Novara che gli avvocati di Palermo assisi ora agli scranni del Parlamento battono la fiacca e, dopo tante chiacchiere, non concludono alcun fatto. Se si fanno i conti, Cosa Nostra non ha ottenuto nulla. Non la revisione dei processi, non il dissequestro dei beni, appena appena un'altra legge per i pentiti che non può compensare la volontà di trasformare in legge (già approvata al Senato) il carcere duro (41 bis).

Viene dunque da chiedersi se il "pentimento" di Antonio Giuffrè non faccia parte di questa strategia che consiglia a Cosa Nostra di esigere il rispetto del "patto" firmato nove anni fa. Proviamo a sondare questa ipotesi. Da un punto di vista politico la ricostruzione di Antonio Giuffrè è micidiale, se autentica. Tutti gli sparsi tasselli di questi anni vanno al posto giusto. Svelano, confermando con l'autorevolezza di un collaboratore di Provenzano, un intreccio che già si poteva intuire. Era un mistero quella Mafia quieta che, con lo "stato maggiore" in galera, se ne stava zitta e buona. Qualcosa doveva aspettare e infatti, spiega Giuffrè, qualcosa sta aspettando. Attende con fastidio. In carcere borbottano che "Iddu pensa solu a iddu" (lo scrivono i servizi segreti) quando in rapida sequenza i mafiosi vedono approvare dal Parlamento leggi di interesse berlusconiano (falso in bilancio, rogatorie, legittimo sospetto), ma Provenzano l'aveva detto: "Bisognerà avere pazienza". Il racconto politico di Giuffrè interpella direttamente Berlusconi. Lo interpella dinanzi all'opinione pubblica e, davanti a quel giudizio, non è permesso "avvalersi della facoltà di non rispondere".

Altro esito ha il discorso giudiziario. Nelle ottanta pagine dell'interrogatorio dell'otto novembre, Giuffrè non offre alcun appiglio investigativo. Se si escludono i nomi dei canali siciliano-milanesi, non c'è un luogo, una data, una circostanza, una fonte neutra da vagliare o interpellare. Nessuna maniglia per aprire la porta a solidi riscontri. Se la sostanza giudiziaria è tutta qui, non si riesce a capire come i procuratori di Palermo potranno mettere insieme un atto di accusa. L'asimmetria tra la gravità delle accuse politiche e la fragilità del loro fondamento istruttorio (per quel che se ne sa, oggi) riporta a galla un interrogativo che, fin dal primo giorno, accompagna la defezione di Antonino Giuffrè: e se il mafioso fosse stato spedito "oltre le linee" per completare il piano di ristrutturazione della Nuova Cosa Nostra?

Seguiamo il filo di una possibile risposta. Antonio Giuffrè si consegna senza un'apparente, personale necessità in una caserma dei carabinieri. Con i pubblici ministeri, è un fiume in piena, ascoltato con interesse (mai mafioso del suo prestigio ha "cantato" la storia recente della mafia). Mentre il Parlamento sta per approvare definitivamente il carcere duro per i mafiosi chiudendo per sempre in una cella la vecchia guardia (Riina, Bagarella, i Graviano, Aglieri, Madonia, Santapaola), egli si incarica di concludere due operazioni. La prima, lanciare segnali di minaccioso ricatto a Silvio Berlusconi e all'intero ceto che in Sicilia e a Roma ha stretto il "patto di scambio politico". Secondo obiettivo: liquidare l'intera rete di mediatori, collusi, conniventi, avvocati dal gioco doppio, banchieri e imprenditori "in odor di mafia", prestanomi e colletti bianchi mascariati dalle inchieste. Via tutti, che ormai sono dei pesi morti, inutili alla bisogna di ricreare l'invasiva, consueta rete di potere. Gli "uomini nuovi", come li chiama Giuffrè, sono già al lavoro e nessuno conosce i loro nomi e la loro attività. Quale che siano l'attendibilità del racconto e la volontà del narratore, converrà attendere ancora per valutare se la moneta di Giuffrè è contraffatta.
(4 dicembre 2002)

Invia questo articolo

 Invia questo articolo
 
Dell'Utri, pm chiedono
di sentire Giuffré
Il verbale
dell'interrogatorio
Gli obiettivi
della confessione

di GIUSEPPE D'AVANZO
DALL'ARCHIVIO
di Repubblica.it
Dove portano
le rivelazioni del pentito
Palermo, violato il pc
con le dichiarazioni
di Giuffré
Si pente
Pino Lipari
Giuffrè: "Così
mi hanno tradito"
"Così la mafia
puntò sui socialisti"
Caccia al tesoro
di Provenzano
La vendetta
del pentito Giuffrè
Lo Forte e Scarpinato
ritirano le dimissioni
Palermo, si spacca
il pool antimafia
Giuffrè collabora
scatta il maxiblitz
 Stampa questo articolo